La complessità in pratica: vivere, decidere, agire. Vivere in contesti complessi

La complessità in pratica: vivere, decidere, agire. Vivere in contesti complessi

La complessità in pratica: vivere, decidere, agire

Vivere in contesti complessi

Festival della Complessità – XIV Edizione

Di Giuseppe Gembillo

Premessa

La Complessità costituisce la struttura organica di ogni essere vivente, il suo “ambiente interno”.

Nello stesso tempo costituisce, con un legame inscindibile, il suo ambiente esterno. Il corpo umano, per esempio, è costituito da parti interagenti che cambiano continuamente, trasformando anche il Tutto che contribuiscono a formare. Se anche una singola parte non muta continuamente, il corpo si ammala e rischia di morire. Ma la complessità che costituisce il corpo umano non basta a mantenerlo in vita. Se esso non interagisce col suo ambiente circostante muore; subisce cioè la stessa sorte di quando le sue parti smettono di mutare. L’interazione con l’ambiente non è limitata ad alcuni aspetti soltanto, ma riguarda ogni attività del corpo vivente, anche se questa acquisizione ha avuto dei tempi lunghi e diversificati per diventare consapevole. Infatti, della necessità di acquisire energia dall’esterno attraverso il cibo l’uomo si è reso conto immediatamente; per comprendere, invece, che altrettanto necessario alla sua sopravvivenza è anche l’ossigeno, ha impiegato parecchi millenni.

È ormai ovvio, dunque, che l’uomo di fatto è sempre vissuto nella complessità e di complessità. Il problema, però, è che non ha compreso la ineluttabilità del suo stato di fatto e che, anzi, ha fatto e in parte continua a fare di tutto per contrastarlo e negarlo.

Che cosa, dunque, non abbiamo compreso?

L’uomo per millenni non ha compreso di essere un organismo in continua trasformazione inserito, in “accoppiamento strutturale” (per usare un’espressione di Humberto Maturana), nell’ambiente circostante dentro cui vive. Ambiente anch’ esso in continua trasformazione in quanto risultato delle molteplici interazioni tra le parti che lo costituiscono e che si modificano continuamente proprio interagendo tra di loro. Per cominciare a comprendere tutto ciò abbiamo dovuto aspettare gli anni settanta del Novecento quando James Lovelock ci ha fatto capire che anche il pianeta Terra è una sorta di mega organismo all’interno del quale tutte le parti che lo compongono sono strettamente connesse e interdipendenti. Si comprende facilmente allora perché anche quando, grazie a “un paio di greci stravaganti”, abbiamo cominciato a utilizzare la riflessione razionale per cercare di comprendere il mondo in cui viviamo lo abbiamo sperimentato come un mondo caotico da esorcizzare e lo abbiamo immaginato come un Cosmo ordinato e definito una volta per tutte. Da quel momento in poi, ovvero da Talete a Einstein, abbiamo cercato il principio unificante a partire dal quale il “caos imprevedibile” fosse diventato, appunto una volta per tutte, un Cosmo ordinato secondo leggi eterne, ripetitive, immutabili. A partire da questa convinzione abbiamo via via elaborato quella visione del mondo perfetta, meccanica, prevedibile che ci ha consegnato, almeno per trecento anni, la fisica classica.

Come sonnambuli

Fatta la scelta consolatoria che ci prometteva il controllo del nostro pianeta grazie alla scoperta di pretese leggi definitive che lo caratterizzerebbero siamo vissuti come sonnambuli. Nel modello che abbiamo elaborato, ma che abbiamo scambiato per la struttura portante del mondo reale, tutto era potenzialmente controllabile, prevedibile, utilizzabile, magari dopo sforzi più o meno lunghi o gravosi, ai nostri scopi. Tuttavia, nella vita reale l’imprevedibilità, la varietà, l’incontrollabilità continuava a farla da padrona. Vivevamo, come è stato opportunamente sottolineato da Kastler, come sonnambuli. Abbiamo così tentato di “imporre” la logica binaria al reale e il rapporto lineare causa-effetto agli eventi reali. Abbiamo interpretato gli eventi reali secondo il modello meccanico dei nostri artefatti. Anzi, lo continuiamo a fare oggi forzando le analogie tra il nostro cervello e il computer che abbiamo costruito per simularne alcune caratteristiche. Abbiamo dimenticato che la Natura non fa calcoli ma che siamo stati noi a creare il calcolare e a oggettivarlo come dato ontologico o, in altro linguaggio, come “dato oggettivo”. Così non è stato facile, e per molti non lo è ancora, capire che la Natura non è strutturata secondo la geometria inventata o sistemata da Euclide.

Non è stato facile, e per molti non lo è ancora, capire che nel corso dei millenni ci siamo fatti dei modelli della Natura e dell’universo intero che, nella migliore delle ipotesi hanno lo stesso nesso con l’Universo che c’è tra la mappa geografica di Roma e la Roma città dentro la quale alcuni vivono e molti altri fanno i turisti.

Vivere nella Complessità

Che significa dunque vivere nella complessità se, di fatto, siamo sempre vissuti come esseri complessi che hanno una storia e che nascono, si formano e muoiono in un determinato tempo?

Significa che finalmente cominciamo a esserne coscienti; significa che finalmente il nostro stato di esseri viventi che concretizzano, avvicendandosi nel tempo, quel modo di essere che abbiamo chiamato “Vita”, emerge chiaramente alla nostra coscienza. Insomma, vivere nella complessità oggi significa per noi essere coscienti di noi stessi e di tutto ciò che ci circonda, che ci consente di essere così come siamo da sempre. Non è un’acquisizione di poco conto: essere coscienti della nostra “storicità” e della nostra “complessità” cambia totalmente il modo di rapportarci a noi stessi, a tutti gli esseri viventi, al pianeta di cui siamo parte. Essere coscienti di tutto ciò cambia radicalmente anche la “logica” con la quale abbiamo ragionato finora, l’etica che abbiamo elaborato, l’approccio emotivo che caratterizza il nostro primo contatto con l’ambiente circostante. A livello logico, vivere nella complessità significa comprendere che la logica della non contraddizione dualistica vero-falso, buono-cattivo, utile-inutile non ha senso nel mondo reale, regolato da una logica “sfumata” che si caratterizza per avere nella autocontraddizione dialettica la molla per il costante mutamento che rende storico ed evolutivo il mondo reale. Significa anche comprendere che bisogna abbandonare la pretesa di avere acquisito delle verità definitive che escludono diversificazioni e innovazioni.

Significa, di conseguenza, che nessuno può pretendere di possedere delle verità che smentiscono le opinioni di coloro che la pensano in maniera diversa da noi, perché le nostre convinzioni sono frutto di un processo di formazione che è sempre più o meno diverso rispetto a quello degli altri.

Significa, cioè, che la diversità di opinioni nasce, come ha compreso Humberto Maturana, dai differenti sforzi cognitivi che il cervello di ognuno di noi fa ogni volta che ci poniamo obbiettivi specifici da perseguire.

In ragione di ciò, vivere nella complessità significa, sul piano etico, innanzitutto che le opinioni espresse da ogni essere umano hanno sempre, come diceva Giambattista Vico, un loro “motivo di vero” che ci tocca innanzitutto comprendere, se vogliamo instaurare con i nostri simili rapporti civili. Ma vivere nella Complessità sul piano etico significa anche estendere il tradizionale concetto di antro poetica fino a farlo diventare non solo bioetica ma anche eco etica nel senso, ormai chiaro, che dobbiamo regolare i nostri comportamenti non solo in relazione ai rapporti tra gli uomini, ma anche e soprattutto in relazione a tutto ciò che ci circonda, in relazione al nostro “ambiente circostante”, nel quale e del quale viviamo.

In ultima analisi, dunque, vivere nella Complessità significa avere piena coscienza del fatto che la vita è il risultato di una serie indefinibile di relazioni, resa possibile solo dal giusto equilibrio tra di esse e che dunque ognuno di noi dovrebbe fare proprio ed estendere quella considerazione di Ortega y Gasset che lo induceva a dichiarare: “Io sono parte di tutto ciò che ho incontrato”.


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